Storia di un cane che non veniva bene in fotografia (O anche: Erik Kessels e la fotografia come objet trouvé)


Erik Kessels, dal libro In almost every picture #7 - 2008
Immagine fornita dall'ufficio stampa della mostra


Vi ricordate La Storia Infinita di Michael Ende? Il libro, dico, non il film. Quando il protagonista, per tornare nel mondo reale deve trovare sottoterra (o nei meandri del proprio inconscio?) quell’unica, preziosa immagine che lo riporterà alla vita?
Ecco, i lavori con la fotografia di Erik Kessels mi hanno fatto pensare a questa cosa di Michael Ende. Il suo è il lavoro di un archeologo delle immagini, o meglio delle fotografie. È il frutto di una ricerca, di uno scovare e conservare, riutilizzare, decontestualizzando e poi ricontestualizzando figure che vengono dal passato, non necessariamente il proprio. A volte sono immagini prese con cura, altre volte distrattamente. Tutte però se ne stanno lì, pronte come sentinelle, a portare la loro muta testimonianza.
Se solo ci prendiamo la briga di interpellarle, rivolgendo loro le giuste domande.
Da domani primo giugno, da Camera, a Torino, è possibile visitare una mostra personale dell’olandese Erik Kessels.
Da ciò che ho scritto sopra si capisce che Kessels lavora con la fotografia, ma non produce personalmente le immagini con cui lavora. Le trova, invece, e le usa alla stregua di objet trouvé, per dar vita a una sorta di ready made in cui le immagini fotografiche sono composte, assemblate, lavorate, fino a dar vita ad opere originali.
Sono le immagini quotidiane, quelle che ciascuno di noi ha scattato tante volte nella vita, magari con lo smartphone per condividerle sui social o, prima (ok per i non-millenials), con le macchine fotografiche analogiche. Scatti su scatti, riusciti o venuti male. Tutti raccontano storie, vicende personali e collettive o condivise, oppure testimoni di privatissimi sentimenti inconfessabili. A volte sono gelosamente conservate in preziosi album rilegati,come si usava una volta, altre vengono gettate via perché inutili, e perché in esse non ci piacciamo o non ci riconosciamo più. Ma perché poi scattiamo tutte queste foto?

Foto dell'installazione di Erik Kessels - 24Hrs in Photos, Eglise St. Claire, Vevey 2014
Immagine fornita dall'ufficio stampa della mostra


In un’ installazione le fotografie si ammassano contro una parete, fino a colmare l’intero spazio della sala come una montagna e tu per passarci devi camminarci sopra. Ogni foto, se avessimo la pazienza di prenderle in mano e di guardarle ad una ad una, racconterebbe una storia, una vicenda, un momento o forse una vita intera. In un’altra sala ci sono decine di foto di piedi e scarpe, tutti di gente che fotografa se stessa, in una improvvisa mania feticista da social network.
Altrove Kessels racconta la vicenda di una donna che gioca a sparare al tirassegno al lunapark. E, un po’ come quello de La Grande Bellezza di Sorrentino, lo fa tutti gli anni, ogni anno allo stesso modo, per tutta la vita. Ed ogni anno, ogni volta che lei prende bene la mira e colpisce il bersaglio, un obiettivo celato nel meccanismo le scatta una foto. Ogni volta, ogni anno una foto. Lei cambia, invecchia, ma scatta sempre la sua fotto. Così alla fine, nella teoria di foto possiamo leggere la sua storia personale, raccontata non si sa a chi e perché, anno dopo anno, giusto con la pausa della seconda guerra mondiale. Sempre imbracciando un fucile.
C’è poi un’installazione sonora e ironica, dove odiamo russare rumorosamente – viva  l’industria dei tappi per le orecchie!
E poi ce n’è un’altra, un video intenso e drammatico, a cui hanno collaborato Marlene Dumas e – udite udite!  – Riuychi Sakamoto per gli effetti sonori.
Ma c’è un lavoro che mi ha colpito più di tutti perché è ironico e profondo allo stesso tempo. Secondo me è davvero un bel racconto, con tanto di finale spiazzante che ti fa capire tante cose.
C’è una famiglia che vuole fotografare il proprio cane. Il cane però è un cucciolone nero, ma così nero che resiste alla luce dell’obiettivo e non viene mai bene in fotografia. Loro però non desistono. Ci provano ovunque, in mille situazioni. Se lo abbracciano, lo mettono il posa. E il cane sempre lì, buono buono a farsi fotografare. Ma il risultato è sempre deludente. In foto non si  vede altro che una grossa e indefinita macchia nera.
Finché un giorno la famiglia decide di fotografare l’amata (e paziente) bestiola amplificando al massimo l’effetto di luce della fotocamera. Finalmente è un successo: il cane si vede!
Peccato che però, colpa della troppa luce, tutto il resto intorno a lui scompaia e, nella foto, il cane appare galleggiare in un universo indistinto e vago, di un giallino slavato, privo di contorni e consistenza.

Da In Almost every picture #9 pubblicato da KesselKramer 2010
Immagine fornita dall'ufficio stampa della mostra


Per me questa cosa è ironica e geniale. Perché sembra dire tante cose su di noi, molte più di quante non sembri. Perché impietosamente mostra l’imbarazzante tentativo di voler fermare un ricordo, un’immagine che non vuole essere fermata, fissata per sempre in lettera morta. Perché è viva, e inafferrabile.
Proprio come i sogni che facciamo di notte, di cui ci resta un sentimento vago e qualche immagine sfuggente quando ci svegliamo la mattina, e come tutte quelle cose che non vogliono essere svelate e dichiarate ai quattro venti dalle parole, come i sentimenti, le sensazioni e i piccoli segreti, l’immagine resiste. Resta illeggibile, irriconoscibile, per quanti sforzi noi facciamo. Molte di queste immagini precipitano nell’inconscio, lì dove l’archeologo, l’artista o il poeta le dovranno riportare alla luce per trovare la strada. Altre, inesorabilmente, si perdono.
Ma anche se infine, in un impeto di ridicola hybris, riusciamo ad acchiapparla, questa immagine, questo ricordo che ci sembrava di poter ricordare eternamente in modo così vivido  e vero… ecco che, una volta strappato alla spietata lontananza di spazio e di tempo,  quel vissuto che ci era tanto caro ci appare infine del tutto diverso da come pensavamo. Il  sentimento, la sensazione, il piacere che furono sono diventati qualcosa di sfumato, incerto. Tanto che non ne siamo più così sicuri.
Ed ecco che il cane nero, dai contorni indefiniti e indefinibili, accompagna la vita di una famiglia qualunque come una presenza che non si dice mai fino in fondo, che resta lì, irriducibile, muta (come il Senza Volto di Miyazaki, direi, per gli amanti del genere). È diventato una specie di tâche aveugle. Il suo essere non catturabile dalla foto sì, magari fa sorridere, ma fa anche pensare a tutto quel che non si vede, che la foto non dice e non può dire, così come non possono dirlo le parole.
Ma che cosa fotografiamo, quando scattiamo una foto? Che cosa vogliamo fissare nella nostra memoria? Guardando le foto del cane che non viene nelle foto mi è venuto da sorridere. Però mi è venuto in mente anche Benjamin quando dice che l’aura dell’opera d’arte è “un singolare intreccio di spazio e di tempo: l'apparizione unica di una lontananza, per quanto questa possa essere vicina”.
Ho pensato che questa cosa è straordinariamente vera. Che tante volte nella vita anch’io, come tutti, ho provato a fotografare un cane che non viene nelle foto, metaforicamente o meno (meno, più spesso, dato che non ho un cane). Mi sono chiesta quante cose nella nostra anima sono così, sfuggenti, inafferrabili, fragili e belle. Ho risposto a me stessa che lo sono di certo tutte quelle più importanti. E le più vive e vere. E poi ho pensato che, caspita, Benjamin ha terribilmente ragione.

La mostra The Many LIves of Erik Kessels, curata da Francesco Zanot,  è visitabile presso gli spazi di Camera – Centro Italiano per la Fotografia a Torino fino al prossimo 30 luglio. Sempre fino a quella data e in quegli spazi (ok, in un’altra sala), c’è anche la mostra di Stefano Cerio, Night Games. Tutte le info le trovate qui: www.camera.to